Le mascherine sono un elemento fondamentale per la prevenzione del contagio e, in particolare, per la protezione di tutti coloro che lavorano a contatto con persone positive, negli ospedali, ma non solo. Una delle problematiche più evidenti dell’emergenza Covid-19 è la loro difficile reperibilità, sia per i privati cittadini, ma anche per lo Stato e per la Protezione Civile che ha necessità di metterle a disposizione di tutti i professionisti in prima linea.
Per questo la facoltà di Chimica del Politecnico di Milano, il Nucleo Nbcr (Nucleare Biologico Chimico Radiologico) dei Vigili del Fuoco e l’Ospedale Sacco hanno scelto un approccio diverso da quello della produzione e deciso di lavorare alla possibilità di ‘riciclo’ delle mascherine usate.
Quattro le strade in campo. Tre su quattro sono ipotesi basate sul concetto di eliminazione del virus attraverso raggi ultravioletti, ozono (grazie al quale oggi vengono sanificate le ambulanze) o raggi gamma, che però prevedono l’utilizzo di macchinari particolarmente complessi. La quarta ipotesi allo studio si basa invece sull’eliminazione dell’‘ambiente’ che ospita il virus, vale a dire le gocce di saliva. Le mascherine potrebbero essere inserite in essiccatoi che eliminano umidità, saliva e conseguentemente il virus. I parametri per la scelta dell’opzione da mettere a regime si basano su diversi fattori quali la rapidità nel dare una risposta immediata, l’efficacia, l’affidabilità sulla loro completa sicurezza e la quantità di mascherine che possono essere sanificate in breve tempo.
Le mascherine attualmente più sicure sono le FFP3, che hanno una capacità di filtraggio del 100% contro l’80% delle chirurgiche. Tutti i modelli sono attualmente usa e getta, a causa dell’umidità per le mascherine chirurgiche e della saturazione dei filtri per le mascherine FFP3. Se il progetto di riciclo delle mascherine andrà in porto, il passaggio successivo sarà quello di attuare una deroga alle certificazioni delle mascherine in uso proprio in funzione della loro natura ‘usa e getta’.